La sofferenza invisibile, perché soffrire non è soltanto piangere, non è soltanto dimostrare esternamente la propria sofferenza…
La sofferenza invisibile, perché c’è tanto di più oltre la sofferenza fisica e visibile…
Quante volte avrei desiderato qualcuno che, una sera, mi telefonasse solamente per dirmi: “scendi, stiamo un po’ fuori”…
Quante volte ho trascorso le mie serate camminando lungo le strade piene di gente, lasciandomi dietro il brusio delle risate, della gioia, che si perdeva nel silenzio non appena chiusa la porta, mentre il mondo si perdeva nel silenzio di un tempo che non aveva più senso… Quante volte avrei avuto bisogno anche soltanto di trascorrere del tempo a parlare con qualcuno, sotto il cielo della sera, a guardare le stelle, a parlare del futuro, a raccontare del passato, a dare un senso al presente… Quante volte avrei soltanto avuto bisogno di staccare la mente dal senso di solitudine che distruggeva quelle giornate che sembravano non trascorrere mai. Eppure, in nessun caso, ho avuto qualcuno accanto: mi ricordo perfettamente quante telefonate senza risposta, quanti messaggi visualizzati e lasciati a morire, quante stupide, false promesse, con tutti quei “si certo, sentiamoci più tardi”, che regolarmente finivano nel vuoto dell’ennesima falsa promessa…
Avrei soltanto avuto bisogno di parlare e di sfogarmi, di avere compagnia, di avere qualcuno accanto con cui ridere, scherzare, dimenticare, parlare, spegnere la mente dai tanti, troppi pensieri che la affollavano, e in nessun caso ho trovato qualcuno, perché tutti avevano una scusa buona per lasciarmi da solo. Si sopravvive, certo, si va avanti, certo, passi le serate a piangere, certo, ma il tempo passa comunque: il fatto è che ne esci profondamente cambiato, profondamente ferito, profondamente diverso nel profondo della tua anima: inizi ad inaridirti, e ti spegni come una candela che si va consumando, come la cera che scende, lenta, e lascia solchi interiori che non si rimarginano.
Molti credono che la sofferenza sia soltanto quella visibile, quella che si vede, quella comprovabile da una presenza fisica, da qualcosa che puoi osservare e vedere, ma non si rendono conto di chi muore di dolore accanto a loro: tanta gente va a battersi il petto, racconta la sua sensibilità, la sua moralità, ma lascia morire di silenzio chi avrebbe soltanto bisogno di avere una pacca sulla spalla, una serata differente, un dolore da cancellare e sentire meno, in due. Io, quelle serate, me le ricordo bene: la sensazione della mortificazione, il vuoto di quei sabato sera passati a camminare sui marciapiedi vuoti, a guardare le auto sfrecciare lungo le strade, a guardare persone felici, ad illudermi che le cose potessero cambiare ad illudermi che quelle sensazioni così tremende non le avrei più sentite. E a non rendermi conto che, invece, le persone sono cattive e non hanno scrupoli: pensano soltanto al proprio tornaconto, e pazienza se stai male, e pazienza se quelle sensazioni le senti solo tu, è un problema solo tuo.
Io soffrivo, spesso piangevo da solo, nel silenzio e nel vuoto, e nessuno se ne è mai accorto, perché tutti avevano altro da pensare, tutti avevano qualcosa da pensare, qualcosa da vivere, qualcosa di meglio da realizzare: la felicità ti rende schifosamente egoista, perché ti fa credere che te lo meriti, e vaffanculo a chi sta male, “perché tanto tu ci sei passato di già, adesso tocca agli altri”. Io quel dolore non l’ho più dimenticato: quelle sensazioni non le ho più dimenticate perché mi hanno cambiato profondamente e radicalmente. Il male che gli altri ci fanno, l’indifferenza in cui veniamo gettati senza nessuno scrupolo, ci cambia irreparabilmente, e quasi sempre in peggio: da quel giorno, dal primo giorno in cui ho cominciato a sentire quella sofferenza, non ho smesso un solo istante di sforzarmi di non dimenticare quello che ho passato, e di aiutare chiunque stesse passando lo stesso dolore.
In fondo, invitare al tuo tavolo una persona sola, scambiare due parole, conoscere gente, passare una serata diversa, è un gesto che non ti toglie nulla, ma, in compenso, ti da tanto e da tanto a qualcuno che, forse, ha soltanto bisogno di una parola, ha soltanto bisogno di sentire accanto qualcuno che cancelli i dolori così forti che la vita ti getta addosso. Io me lo ricordo bene, fin troppo bene, cosa significasse piangere quando avevo soltanto bisogno di uscire, di sorridere, di distrarmi. E mi ricordo bene cosa provassi quando il dolore era così forte, quando nessuno si prendeva cura di me. Ma, ancora più nitidamente, ricordo bene la mortificazione del rendersi conto di essere compatiti: ricordo bene quella sensazione quasi di “obbligo” che certuni avevano verso di me, quasi come se fossero spinti da una sorta di “obbligo morale”, di “buon senso” privato, però, del vero sentimento e della vera gioia della condivisione e della compagnia.
Non aveva senso ritrovarsi accanto a delle palesi forzature senza il piacere della condivisione, o, peggio ancora, ritrovarsi in contesti totalmente estranei, in mezzo ad estranei che parlavano di cose a te totalmente estranee, solamente per il piacere della compagnia, solamente per allontanare il vuoto di quelle sere. Quella è la sensazione peggiore che puoi provare: arrivare a prostituirti ritrovandoti tra gente estranea con cui non hai nulla a che dividere solo per non sentire il senso della solitudine. No, non esiste. Basta già la sofferenza che ti lascia il vuoto di quel tempo senza tempo, di quel vivere senza capire, senza comprendere, senza più renderti conto dove inizia la sofferenza e dove finisce.
Perché il dolore di quei momenti, la violenza di quel dolore, io, non lo dimentico più.